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Condividerò giusto due riflessioni, non proprio allegre, non molto primaverili ma a pensarci bene forse un pò si.
La settimana scorsa non c'ero nè nella mia casa virtuale nè in quella reale. Un bel giorno mi svegliai con dei giramenti di testa che, col passare delle ore, divennero degli giramenti anche di qualcos'altro, delle fastidiose vertigini che non cessavano mai. Due giorni dopo andai da un dottore per dei consigli e poco dopo fui in'ospedale per accertare il motivo di questi capogiri. Finii in neurologia, con la promessa di doverci rimanere solo 2-3 giorni, il tempo di fare alcuni esami. Ma i giorni passavano in questa specie di limbo, nè fuori nè dentro, sospesa nel tempo, segregata con dei malati seri, alcuni di loro senza alcuna speranza di recupero. Non ho mai frequentato ospedali e non ho mai pensato che luoghi assurdi fossero, dove l'alienzione e i sentimenti di qualsiasi tipo vengono amplificati a dismisura, si perdono le coordinate (fisiche, temporali e mentali) originarie e di conseguenza vedi, senti quello che in normali situazioni non ti sfiorerebbe nemmeno. A volte avevo quasi l'impressione di essere capitata in un romanzo di Kafka, altre volte mi sentivo il viandante de Il castello dei destini incrociati che attraversando una foresta arriva in un castello dove gli ospiti all'improvviso perdono la capacità di parlare ma che continuano a comunicare in altri modi perchè la voglia, la necessità di raccontarsi sono fortissime. Storie e destini si incrociano e racconto dopo racconto, immagine dopo immagine una storia individuale ma allo stesso tempo collettiva prende forma, una storia in una continua metamorfosi. Ad un certo punto ho pensato che ogni scrittore che intende scrivere un libro veramente intenso deve farsi venire un male preferibilmante curabile e farsi una gavetta di qualche settimana in un ospedale pubblico (lo so, non è molto etico farsi venire l'ispirazione sulle spese del sistema sanitario nazionale ma è pur sempre una soluzione e poi, povero cocco, dove va a scovare le emozioni forti nel mondo d'oggi? :).
Bene, arrivati a questo punto anche quei quattro gatti che sono stati coraggiosi e hanno affrontato questi argomenti così poco allegri, perdipiù scritti così malamente, in una bella e frizzante giornata di primavera come oggi, hanno già abbandonato questo post, così mi farò due discorsi tra me e me. A che serve un blog se non a questo?
Diciamo che la sensazione di trovarmi sulla crocevia di destini diversi e perlopiù tristi e disperati è quella che mi assaliva tutti giorni. E io ero lì, parte di questo soffrire e sperare collettivo, a tutte le ore della mia permanenza. La signora settantenne accanto a me, forte, generosa e con uno spirito ironico, per un embolo diventa quasi un vegetale, ma un vegetale sofferente che si lamenta, si dimena e vede pesci dappertutto. S'immagina la pioggia dentro la stanza, una specie di diluvio universale che inghiotte lentamente la nostra stanza, di notte vede la luce e di giorno s'immagina il buio. E la sua famiglia, famigliari di secondo o addirittura di terzo grado, al suo cappezzale, sinceramente rattristiti e speranzosi, la nipote ventenne che rimane sul corridoio e piange, la cognata che la assiste giorno e notte con tanta dedizione e che scoppia in lacrime ogni volta che la malata ha una crisi respiratoria che le potrebbe costare le vita. Vedo il suo attaccamento a questo straccio di vita, ai ricordi, a quello che questa donna era e che, forse, non sarà mai più. Io vedo solo una vecchia sdentata, che dipende totalmente dal senso del dovere del personale ospedaliero e della dedizione amorevole della sua famiglia, che riceve ma non dà e la sua condizione così poco dignitosa e così grottesca nella sua forte fisicità (fatta di pannolini, odori, rumori corporali) e mi fa riflettere seriamente sull'eutanasia. Divento cinica come non lo sono mai stata.
Poi c'è la ragaza ventenne dal viso angelico ma triste che passa le sue albe pulendo stanze d'ospedale e mentre sposta ciabatte, pulisce, disinfetta sente il bisogno di confidarsi con noi, perfetti sconosciuti e parlare del suo dolore. della perdita del suo figlio neonato, la sua disperazione profonda, il senso di dovere e la determinazione di andare avanti ad ogni costo.
Poi c'è la figura ombrosa e taciturna del primario che è nel reparto giorno e notte perchè la sua figlia adolescente è ricoverata proprio lì - che scherzo crudele del destino! E' lì come medico e come padre e il suo fardello è visibilmente pesante.
Poi c'è la bambina, all'incirca dell'età di mia figlia, incosciente e con gravi problemi neurologici. Potrebbe essere mia figlia. Ma non lo è. E il dolore della madre non è il mio dolore - anche se, per empatia, lo sento un pò anche mio.
E quando le sensazioni diventano insopportabilmente forti, esco dal reparto, scappo giù al bar dell'ospedale, in quella specie di zona franca per respirare un'aria un po' più leggera e con il caffè mi arriva la saggezza della bustina dello zucchero: Sii felice per quello che hai e non triste per quello che non hai. Niente di più semplice e di più banale. E allora mi sento veramente grata per quello che ho. E, viste le circostanze, anche per quello che non ho (avendo appena escluso patalogie come tumori al cervello e malattie degenerative).
Devo imparare a tenere separato il superfluo dall'essenziale.
Di sentire compassione, non quella cristiana, ma quella umana.
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[qualche scatto con la mia macchinetta tascabile; diciamo che sono riuscita a lavorare un po' sul libro che sto traducendo e ho imparato a fare la rosa d'irlanda con quel bel cotone egiziano comprato insieme a Roberta]
[ps. alla fine, dopo quasi una settimana di 'vacanza' sono uscita anche contro il parere del medico, con gli stessi sintomi e più confusa di prima ma più positiva e più consapevole della mia fortuna]